Una tematica è tabù quando è oggetto di un divieto senza fondamento oggettivo o quando vi è una proibizione a parlarne. Partire da questa definizione fornisce la chiave di lettura adeguata per comprendere lo scenario in cui è inserito il fenomeno della sessualità per la persone disabili. Molto spesso viene considerata tabù anche la sola parola sessualità, che evoca in ogni soggetto la propria percezione del sesso, le emozioni e le esperienze connesse a quest’ultimo. La sessualità delle persone disabili è quasi sempre non riconosciuta e trattata come un oneroso problema da parte di familiari e operatori. L’educatore competente, in realtà, deve farsi carico della sessualità della persona disabile e del suo ben-essere.
Una definizione di sessualità
Secondo l’OMS “La sessualità costituisce un aspetto centrale dell’esistenza umana nell’arco dell’intera vita e comprende il sesso, l’identità e i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, l’erotismo, il piacere, l’intimità e la riproduzione. La sessualità è vissuta ed espressa nei pensieri, nelle fantasie, nei desideri, nelle credenze, nelle attitudini, nei valori, nei comportamenti, nelle pratiche, nei ruoli e nelle relazioni. La sessualità comprende tutti questi aspetti ma non tutte le dimensioni della sessualità sono vissute o espresse ogni volta. La sessualità è inoltre influenzata dell’interazione di fattori biologici, psicologici, sociali, economici, politici, culturali, etici, legali, storici, religiosi e spirituali”.
Questa definizione mette in luce la complessità dell’argomento, composto da varie dimensioni simboliche, le quali evocano e sintetizzano una realtà assai vasta, che non può essere trascurata e – ancor peggio – non indagata. La sessualità è quindi un concetto che copre un ampio spazio semantico, tanto da divenire un fenomeno fondamentale nella formazione dell’identità personale. Si può affermare, difatti, che la sfera sessuale definisca molti dei rapporti esistenti in una società, diventando un vero e proprio marcatore identitario. GOFFMAN (1977), a tal proposito, afferma che vi siano situazioni sociali già pre- impostate per valorizzare la differenza sessuale che in sé sarebbe poco incisiva; è quindi l’organizzazione sociale che predispone modalità idonee e palcoscenici adatti per l’esibizione dell’identità sessuale. La sessualità umana è costruita sia dalle esperienze personali, sia soprattutto dai discorsi e dalle produzioni letterarie istituzionali, scientifiche e di senso comune che l’hanno indagata, autorizzata, proibita, liberata, biologizzata.
Sessualità nascoste, sessualità narrate, sassualità da narrare
Per poter affrontare, però, il tema della sessualità delle persone disabili è fondamentale interrogarsi – in quanto educatori professionali – rispetto a quali siano le proprie percezioni del sesso e come viene quindi percepito quest’ultimo connesso agli utenti con cui ci si ritrova a relazionarsi quotidianamente. Parlare di sesso tra le persone cosiddette normodotate provoca solitamente imbarazzo, disagio e difficoltà;poiché è una peculiarità della vita intima e personale, ma anche perché si è portati a confondere il termine sessualità con il solo atto sessuale, il coito. Difficilmente si pensa a tutte le altre variabili – l’affettività, l’attrazione, i gesti, le sensazioni – provate , probabilmente perché ci si imbatte in un blocco emotivo nel tentativo di tradurre in discorso quel che concerne una sfera tanto recondita e delicata. La domanda che quindi dovrebbe animare qualsiasi discussione sulla questione sessualità\disabilità dovrebbe primariamente riguardare l’operatore e solo di conseguenza l’utente disabile. Per meglio intenderci, l’operatore dovrebbe domandarsi quali siano i propri vissuti legati alla sessualità, come questi influenzino la relazione con l’Altro e come – inevitabilmente – guidino gli interventi di contenimento o di educazione alla sessualità. Per fare un esempio alquanto semplice: se l’operatore ha una percezione della sessualità fortemente pudica, di fronte ad un’espressione della sessualità altrui sarà presumibilmente coercitivo e sanzionatorio, poiché la risonanza dell’evento richiamerà proprio la sua personale idea di sessualità.
Se la sessualità – come già ampiamente affermato – è un aspetto che riguarda tutti gli individui, allora è necessario ribadire con forza che quel “tutti” debba comprendere anche le persone disabili.
Una riflessione è certamente azzardabile: se la parola sessualità evoca imbarazzo e la parola disabilità evoca l’idea di limitazione, viene da domandarsi come sia possibile superare questa correlazione che acquista la connotazione di dogma. È inevitabile che la disabilità ci riporti alla dimensione della sofferenza, del dolore e – a volte – della solitudine. Raramente si pensa ad una disabilità accettata, vissuta e socializzata. Può sembrare mera ideologia dichiarare che il disabile sia prima di tutto una persona ed in quanto tale ha una propria dignità ed è titolare di diritti, tra cui il diritto al piacere e alla sessualità, ma è quanto mai necessario ribadirlo, senza il timore di apparire animati da propositi semplicistici e buonisti. Spesse volte – affermano Inghilleri e Ruspini(2011) – la negazione della sessualità dei disabili viene considerata quasi un fatto naturale ed il suo tentativo di riconoscimento genera confusione, disgusto, disapprovazione. Anche perché il corpo disabile evoca un’idea di dipendenza e vulnerabilità che lo avvicinano al bambino, e infatti la sessualità dei disabili viene negata anche attraverso meccanismi di infantilizzazione. Ma non solo – purtroppo – quello a cui si assiste è un doloroso processo di de-sessulizzazione della persona disabile. Nello specifico gli autori asseriscono come tale processo avvenga nei contesti di interazione sociale, attraverso la negazione dell’identità di genere e dell’eventualità per il disabile di essere considerato partner in una relazione sessuale, e ancora sottolineano come la de-sessaulizzazione sia trasversale e come lo status di disabilità arrivi ad essere una variabile identitaria che precede il genere, mentre nei soggetti abili il genere è la variabile immediatamente successiva a quella di “essere umano”.
L’educatore competente
Se il tema della sessualità viene vissuto nella maggior parte dei contesti come questione problematica, l’educatore è chiamato a trovare soluzioni efficaci. In che modo? Luigi Colaianni ci parla di competenza ad agire nelle situazioni problematiche:
“La competenza ad agire in situazioni di diffcoltà, più che l’arte di applicare qui e ora le proprie conoscenze, o di reiterare scelte che finora avevano avuto successo, è la capacità, a fronte di sfide impreviste, di utilizzare le risorse soggettive e le possibilità offerte dall’ambiente attraverso una sorta di “invenzione” in cui vengono a ricombinarsi in modo inedito elementi già presenti sulla scena dell’azione, ma fino a quel momento organizzati secondo logiche ormai impotenti nel fronteggiare i problemi.”
L’autore sottolinea come la modalità di intervento degli operatori del welfare, dovrebbero essere: “generative dell’azione, incidendo positivamente sulla competenza ad agire delle persone, mantenendo l’apertura all’indeterminatezza del caso, piuttosto che rischiare, attraverso una definizione clinica o comunque esperta, soluzioni tanto inutili quanto spesso autoritarie”.
Questa affermazione è utile a ricordare ad ogni operatore che quando si viene a conoscenza di un utente, si deve tenere conto della sua storia, valorizzandola.
É necessario cercare di analizzare la situazione partendo dal soggetto stesso, senza concentrarsi solo ed esclusivamente sulla soluzione del problema. L’operatore sociale non è portatore di risposte immediate ai problemi, quanto piuttosto è in grado di motivare l’altro in un contesto di senso costruito insieme. La competenza ad agire coincide con la competenza a riassemblare capacità personali in una nuova prospettiva, riorganizzare ciò di cui si dispone nel fronteggiamento dell’inedito: una sorta di meta-competenza. Significativo è, quindi, affermare che l’operatore sociale non riveste il ruolo di chi sa e l’utente di chi deve apprendere, ma entrambi sono parte di una comune costruzione di senso, attraverso l’azione. La costruzione di senso, e di contesti di apprendimento/cambiamento è condizionata dal tempo e dal caso. Il tempo perchè è l’alleato cha fa da sfondo alla vita; il caso perchè permette di dare spazio all’imprevisto, al nuovo e al cambiamento. La questione – allora – per gli operatori del welfare, non è trovare una risposta al problema, bensì uscire dalla risposta e lasciarsi alle spalle ciò che è sterile.
Progettare un intervento è possibile?
Assolutamente sì, anzi è doveroso. Partiamo da una considerazione preliminare citando ROSSINI (2009):
“Se è vero, come è vero, che nei processi terapeutici entra in gioco la sessualità degli operatori, nonché dei pazienti, piuttosto che negarla, riteniamo sia meglio rendersene consapevoli, imparando a conoscere la propria sessualità, come pure i bisogni sessuali dei pazienti, e iniziando così a concepire il proprio corpo come veicolo di importanti messaggi – e conseguenti risposte – relazionali e quindi come “strumento” professionale da utilizzare al meglio”
In un lavoro basato sulla relazione d’aiuto, come quello di educatore, lo sguardo deve quindi essere rivolto al “ben-essere” del soggetto, ovvero alla capacità di in individuo di vivere le potenzialità del proprio essere, che comprende anche la dimensione della sessualità. Nei processi formativi è opportuno accettare quest’ultima e concepirla come componente ineludibile della materialità educativa.
Tutto il cammino educativo, che ogni persona è chiamata a compiere, deve avere come obiettivo primario il raggiungimento della capacità di scelta e di autodeterminazione, affinché essa possa vivere pienamente la propria vita con dignità e senza essere di peso agli altri.
Il ruolo dell’assistente sessuale, una soluzione percorribile?
L’assistente sessuale è una professione nata circa negli anni ’80 negli Stati Uniti e nei paesi del Nord Europa. In quegli anni è iniziata la prima fase di formazione di questi professionisti al fine di fornire assistenza sessuale a persone portatrici di handicap. Va sottolineato che la riflessione che ha condotto all’istituzione di questa figura ha risentito dell’influenza dei movimenti per i diritti umani e della rivoluzione sessuale della decade ’60 – ’70, ma anche dalle ricerche condotte da Master e Johnson attraverso il loro lavoro del 1970 Inadeguatezza sessuale umana. Nello specifico quello dei sex surrogate (partner surrogati) è un intervento finalizzato al benessere psico – fisico ed emotivo di persone in situazione di disabilità; il professionista è tecnicamente una persona che entra in intimità sessuale con un cliente sotto la supervisione di un terapista. Proprio questa “triangolazione” dell’intervento differenzia l’assistenza sessuale dalla prostituzione. La prostituta non possiede le competenze relazionali per rapportarsi ad una persona disabile; l’incontro con un prostituta è un fine, il cui scopo è il raggiungimento – più o meno difficoltoso – dell’orgasmo; l’incontro con un assistente sessuale – di contro – è l’inizio di un percorso verso il riconoscimento del proprio corpo naturalmente sessualizzato.
Chi richiede l’intervento del partner surrogato è chiamato cliente e non paziente, perchè l’intervento assistenziale si concentra sulla sfera sessuale, non medica. Gli incontri, o sedute, hanno un numero prestabilito ed una durata di circa due ore, per evitare qualsivoglia investimento emotivo dannoso per lo scopo della terapia. Quello che va evidenziato è che questi professionisti hanno come obiettivo quello di avviare una qualsiasi forma di autonomia sessuale, per fare ciò il punto di partenza non può che essere una terapia iniziata partendo dalla coscientizzazione del proprio corpo.
In Italia
Il progetto “LoveGiver” è nato al fine di promuovere il pieno sviluppo della sfera sessuale non solo come percorso per arrivare ad una più completa conoscenza di sé, ma anche come strumento per costruire un benessere fisico / psicologico. Ispirandosi agli esempi di paesi come Olanda, Germania, Austria, Svizzera (parti germanica e francofona) e Danimarca, dove è presente da anni la figura dell’assistente sessuale, nel 2013, dall’idea di Maximiliano Ulivieri, partito il progetto di istituzione della figura dell’assistente sessuale per le persone con disabilità in Italia. Si tratta di una vera e propria rivoluzione, che ha portato a creare il primo corso per assistenti sessuali in Italia.
Vi invitiamo a visitare il loro sito http://www.lovegiver.it
Avviso importante a tutti gli educatori!
Come educatori dobbiamo costantemente essere mossi dalla volontà di non tacere le situazioni scomode ed onerose da affrontare in quanto operatori; la continua ricerca di motivazione e la spinta all’azione costituiscono la grande ricchezza del lavoro di educatore professionale. Una professione che per sua definizione si occupa del non detto e della problematicità, ma al tempo stesso è caratterizzato da epifanie, cambiamenti e speranze. L’errore più distruttivo, per un educatore, è quello di prestare attenzione solo alla dimensione di problematicità di una situazione; ma il lavoro diretto, ci insegna a spostare lo sguardo verso il possibile e reale miglioramento.