Sono pochi i mesi già trascorsi dall’inizio della mia esperienza universitaria è già molto è il bagaglio di spunti e riflessioni che mi porto dentro, il primo fra tutti il “pensare per storie” (Bateson).
Nel nostro lavoro ne incontriamo tante e ricordarsi che ciò che incontriamo sono proprio frammenti di vita di altri, è orientante. Spesso mi è capitato di ascoltare i vissuti degli altri cercando di collocarli in una qualche sorta di “verità”. Mi spiego. Credo che molti di noi immaginino il mondo come qualcosa che si distribuisce su una scala di valori che oscilla tra bene e male, giusto o sbagliato, vero o falso. Ecco, ad oggi sono pronta a cambiare le lenti con cui cercavo di comprendere questo stesso mondo, partendo dall’assunto che il vissuto che accogliamo è sempre “vero” all’interno però della storia che ci riporta l’Altro. Non c’è più un dualismo valoriale, poiché non c’è una verità “là fuori” che deve essere svelata, a cui noi stessi dobbiamo tendere. Dunque ci sono storie, che si interconnettono e che si svelano all’interno delle cornici di senso che il protagonista della storia ha costruito facendone la Sua realtà. Il nostro compito è quello di capire e di fare emergere queste cornici implicitamente date per scontato perché reiterate negli anni.
E le nostre cornici? E le nostre storie? La mia vita e il mio sapere che fino ad oggi ho accumulato si fondono e plasmano la realtà che IO costruisco secondo le mie cornici che a volte abbiamo la presunzione, in quanto operatori formati, di saper riconoscere e invece sono “subdole” agiscono nell’ombra delle nostre azioni, ci influenzano e, provocatoriamente, ci manipolano. Uno strumento di disvelamento di queste cornici o semplicemente di conoscenza di sé è la narrazione autobiografica.
Scrivere di sé è uno strumento potentissimo, lasciare fluire attraverso la penna (o per i più tecnologici, attraverso la tastiera) frammenti del nostro dialogo interiore diventa rivelatorio. La scrittura dunque non è mai oggettiva, anche quando crediamo di descrivere qualcosa, non ci rendiamo conto che operiamo un atto osservativo parziale perché siamo noi a decidere di mettere in evidenza quel particolare piuttosto che quell’altro. La narrazione mette in evidenza la nostra soggettività e sulla carta potremmo rileggere qualcosa di noi che non credevamo esistesse. Potremmo far emergere magari quei ricordi che consideravamo “dormienti” (cit. Demetrio) e smarriti. Credo possa essere un momento per far crescere la nostra vita interiore.
Personalmente ho scoperto troppo tardi il piacere della scrittura, mi rendo conto, quando scrivo di me, di far emergere frasi e parole che ad alta voce non direi, oppure riesco ad appropriarmi di un linguaggio metaforico e simbolico che meglio rappresenta il mio stato d’animo. È quasi terapeutico. Dunque la narrazione autobiografica viene vista nelle scienze sociali come mezzo di ricerca, di formazione e quindi di trasformazione di noi stessi. Vorrei lasciarvi con questo spunto: in che rapporto siete con la scrittura di voi e dei vostri vissuti?